Ricorso per conflitto tra enti n. 11 depositato il 7 ottobre 2011
per conflitto di attribuzione tra lo Stato  e  le  Regioni  ai  sensi
dell'art. 134, comma 2, Cost., dell'art. 39 della  legge  n.  87  del
1953, e dell'art. 25 delle Norme integrative per i giudizi di  fronte
alla Corte costituzionale del 7 ottobre 2008 promosso  dalla  Regione
Campania in persona del legale rappresentate pro tempore, on. Stefano
Caldoro, Presidente della Giunta Regionale, rappresentata  e  difesa,
giusta mandato a margine al presente ricorso e delibera  di  incarico
dagli Avv.ti Maria d'Elia, Almerina Bove, dell'Avvocatura  Regionale,
nonche' dagli Avv.ti Prof. Beniamino Caravita di  Toritto  e  Gaetano
Paolino, elettivamente domiciliata in Roma, alla via Poli, 29, presso
gli uffici di rappresentanza della Regione contro il  Presidente  del
Consiglio dei Ministri pro-tempore affinche' dichiari che non  spetta
allo Stato, e per esso, ai suoi organi giurisdizionali,  la  facolta'
di annullare il D.P.G.R.C. n. 136 del 2010 con il quale,  preso  atto
delle dimissioni irrevocabili di  un  assessore,  e'  stato  nominato
altro assessore. 
 
                                Fatto 
 
    1. Con ricorso proposto dinanzi al Tar Campania, l'Avv.  Annarita
Petrone ha impugnato i decreti presidenziali di nomina dei componenti
della  Giunta  regionale  campana.  La  ricorrente  ha  lamentato  la
violazione del principio della equilibrata presenza di uomini e donne
nella formazione degli organi e degli uffici regionali (di  cui  agli
artt. 1, 5, 22, 35, 46 e 47 dello Statuto), in ragione della presenza
di una sola componente di sesso femminile  nell'attuale  composizione
dell'organo esecutivo della Regione. 
    In assenza di qualsiasi indicazione numerica  nello  Statuto  che
permetta di considerare perseguito l'obiettivo  del  riequilibrio  di
genere in seno agli organi di governo regionali, parte ricorrente  ha
affermato che in ogni caso, anche nella denegata ipotesi in cui fosse
impossibile dare attuazione al principio in questione, le ragioni  di
una  simile  condizione  avrebbero  dovuto  essere  esplicitate   nei
provvedimenti presidenziali di nomina della Giunta. 
    Nel decidere il giudizio, il Tar, con sentenza n. 1985 del  2011,
ha accolto il ricorso, annullando il decreto presidenziale n. 136 del
16 luglio 2010, con cui, nelle more della definizione del primo grado
di giudizio, il Presidente della Giunta aveva sostituito  l'assessore
dimissionario  dott.  Ernesto  Sica  con  altro  assessore  di  sesso
maschile, nella persona del dott. Vito Amendolara. 
    Nel merito, il Collegio ha affermato che gli atti di  nomina  dei
componenti  l'organo  esecutivo  regionale,  seppur  costituenti   il
risultato di  una  scelta  caratterizzata  da  un  elevato  tasso  di
discrezionalita', non hanno natura di atto politico, bensi'  di  atto
amministrativo, soggetti al rispetto dei  parametri  di  legittimita'
procedimentale e sostanziale che delimitano il potere  presidenziale,
e come tali suscettibili di sindacato in sede giurisdizionale. 
    Con riguardo all'art. 51 della Costituzione,  richiamandosi  alle
precedenti sentenze della stessa sezione (Tar Campania  Napoli,  sez.
I, sentt. n. 12668/2010 e  n.  1427/2011),  il  Tar  Campania  ne  ha
affermato la natura di  "parametro  di  legittimita'  sostanziale  di
attivita' amministrative discrezionali, rispetto alle quali  si  pone
come limite conformativo". Lo stesso giudice di prime cure, tuttavia,
ricorda come la natura della  norma  costituzionale  in  oggetto  sia
tuttora  dibattuta  in  giurisprudenza  e  foriera  di   orientamenti
contrastanti (richiamandosi, in senso opposto a quello fatto  proprio
dalla gravata sentenza, TAR Milano,  n.  354/2011  e  TAR  Lecce,  n.
622/2010). 
    Nella vicenda concreta, dirimente sarebbe comunque la  previsione
contenuta nell'art. 46, comma 3, dello statuto campano, per  cui  "il
Presidente della Giunta regionale (...) nomina,  nel  pieno  rispetto
del principio di una equilibrata  presenza  di  donne  ed  uomini,  i
componenti della Giunta".  Detta  disposizione,  collocandosi  in  un
quadro di disposizioni tese a riconoscere e promuovere  l'uguaglianza
tra i sessi (artt. 4 e 5 dello Statuto  campano),  si  sostanzierebbe
"in una azione positiva di  riequilibrio  in  ambito  politico  delle
presenze dei due sessi con riferimento (...) alla giunta  regionale",
delineando  un  precetto  immediato  e  diretto  sulla   composizione
dell'organo esecutivo della Regione. 
    Ad   avviso   del   giudice   di   primo    grado,    l'obiettivo
dell'equilibrata presenza dei sessi in seno all'organo  esecutivo  si
assicurerebbe, in concreto, attraverso un giudizio di  ragionevolezza
ed adeguatezza teso a scongiurare la realizzazione di eccessi  in  un
senso  o  nell'altro.  Tuttavia  lo  stesso  TAR  riconosce  che   la
sussistenza di un vincolo siffatto, derivante dall'art. 46, comma  3,
dello Statuto, non escluderebbe l'ipotesi in cui non possa garantirsi
un'equilibrata presenza in seno all'organo  esecutivo  in  virtu'  di
ragioni oggettive.  Ragioni  che,  qualora  ricorressero,  dovrebbero
essere esplicitate nella motivazione dei provvedimenti  presidenziali
di nomina. 
    Alla luce delle argomentazioni richiamate, il  giudice  di  primo
grado ha ritenuto di accogliere il ricorso "nei limiti dell'interesse
della ricorrente", annullando il D.P.G.R.C.  n.  136  del  16  luglio
2010, ultimo decreto presidenziale in ordine di tempo, con  il  quale
si e' provveduto a sostituire l'assessore dimissionario dott. Ernesto
Sica con altro assessore di sesso maschile (dott.  Vito  Amendolara),
perpetuando il disequilibrio  tra  i  sessi  esistente  nella  Giunta
regionale. 
    2. La sentenza del Tar e' stata impugnata dalla Regione  Campania
e il Consiglio di Stato con la sent. n. 4502  del  2011  ha  respinto
l'appello in questione confermando la decisione del giudice di  primo
grado. 
    Per quanto concerne la natura dell'atto di nomina degli assessori
della Giunta,  la  decisione  ha  negato  che  esso  possa  ritenersi
sottratto al controllo giurisdizionale in  quanto  avente  natura  di
atto politico. Rifacendosi al dibattito che origina dalla prima meta'
del XIX secolo, la pronuncia in commento tenta di enucleare i' tratti
essenziali che caratterizzano gli atti politici (al  fine  delimitare
la portata delle norme che ne escludono la  sindacabilita'  da  parte
del giudice amministrativo), in relazione agli atti amministrativi  e
agli atti di alta amministrazione. 
    Il Consiglio di Stato sembra qui aderire a quell'orientamento  in
forza del quale e' possibile affermare la natura politica di un  atto
in presenza  di  un  elemento  oggettivo,  consistente  nella  natura
generale  degli  interessi  perseguiti  e  nella  liberta'  nel  fine
dell'organo politico, e di  un  elemento  soggettivo,  caratterizzato
dalla provenienza dell'atto da un organo costituzionale o di governo. 
    Soggiunge tuttavia la sentenza n. 4502: "Ma  il  vero  argumentum
principis a sostegno della insindacabilita' sembra essere la mancanza
di parametri giuridici alla stregua dei quali  poter  verificare  gli
atti politici. Le uniche limitazioni  cui  l'atto  politico  soggiace
sono costituite dall'Osservanza dei precetti costituzionali,  la  cui
violazione puo' giustificare un sindacato della Corte  costituzionale
di legittimita' sulle leggi e gli atti aventi forza  di  legge  o  in
sede di conflitto di attribuzione  su  qualsivoglia  atto  lesivo  di
competenze costituzionalmente garantite". 
    Il Consiglio di Stato prosegue poi definendo l'attivita' di  alta
amministrazione  come  "l'attivita'   amministrativa   immediatamente
esecutiva dell'indirizzo politico (...) anello di congiunzione tra la
fase  della  programmazione  politica  e  l'attivita'   di   gestione
amministrativa". Precisa che  l'atto  di  alta  amministrazione,  "di
regola adottato dall'organo politico in un clima di  "fiduciarieta'",
costituisce il primo momento attuativo, anche se per linee  generali,
dell'indirizzo  politico  a  livello  amministrativo".  A  differenza
dell'atto politico, esso esprime una potestas vincolata  nel  fine  e
soggetta  al  principio  di  legalita'.  Poiche'  gli  atti  di  alta
amministrazione costituiscono una species del piu' ampio genus  degli
atti  amministrativi,  soggiacciono  pertanto  al   relativo   regime
giuridico, ivi compreso il sindacato giurisdizionale,  sia  pure  con
talune peculiarita' connesse alla natura spiccatamente  discrezionale
degli stessi. 
    La sentenza, inoltre,  evidenzia  come  la  giurisprudenza  abbia
tentato di restringere la categoria dell'atto politico (Consiglio  di
Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209), conferendo, al  contempo,  i
caratteri dell'alta amministrazione agli  atti  ove  non  vengono  in
rilevo supremi ed unitari compiti statali, bensi' interessi  puntuali
e contingenti. Ricorda inoltre che, tipicamente, "gli  atti  politici
costituiscono espressione della liberta'  (politica)  commessa  dalla
Costituzione  ai  supremi  organi  decisionali  dello  Stato  per  la
soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo  inerenti
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14 aprile 2001,  n.  340)  e  sono
liberi nella scelta dei fini"; gli atti amministrativi invece  "anche
quando sono espressione  di  ampia  discrezionalita',  sono  comunque
legati ai fini posti dalla legge (cfr.  Cass.,  S.  U.,  13  novembre
2000, n. 170)" (in realta' n. 1170). Sulla base  di  queste  premesse
afferma conclusivamente che "non puo' certo  riconoscersi  natura  di
atto politico alla nomina degli assessori, a maggior ragione dove  lo
Statuto  ponga  un  vincolo,  che   ne   costituisce   parametro   di
legittimita', con riguardo al rispetto dell'equilibrata  composizione
dei due sessi'. 
    Prosegue  inoltre  il  Supremo  consesso  ricordando  come   "pur
nell'ambito di una pluralita' di ordinamenti giuridici integrati,  ma
autonomi,  e'  stato  ribadito  che   il   principio   della   tutela
giurisdizionale contro gli atti dell'Amministrazione  pubblica  (art.
113 Cost.) ha portata generale e coinvolge, in  linea  di  principio,
tutte  le  Amministrazioni  anche  di  rango  elevato  e  di  rilievo
costituzionale" e inoltre che  "L'atto  di  nomina  di  un  assessore
regionale, da un lato, non e' libero nella scelta dei  fini,  essendo
sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine  di  ausilio
del  Presidente  della  Regione  nell'amministrazione  della  Regione
stessa, e dall'altro e' sottoposto a criteri  strettamente  giuridici
come quello citato dell'art. 46, comma 3, dello Statuto campano". 
    Da  ultimo,  in   ordine   alla   valenza   programmatici   della
prescrizione  statutaria,  dedotta  dagli  appellanti,  il   Collegio
precisa  che  in  origine,  l'utilizzo   del   concetto   di   "norme
programmatiche"   (concetto   riferito,    in    particolare,    alla
Costituzione) era strumentale a negare  l'efficacia  giuridica  delle
disposizioni in cui esse erano contenute; al contrario, la dottrina e
la  successiva  evoluzione  giurisprudenziale  hanno  dimostrato  che
quelle norme dovevano considerarsi pur sempre precettive nei riguardi
della successiva  attivita'  degli  organi  dello  Stato,  nel  senso
dell'esser  pur  sempre  produttive  di   invalidita'   delle   leggi
successive con esse contrastanti. 
    Analogamente, sostiene il giudice dell'appello, la violazione del
principio base posto dallo  Statuto  (art.  46)  da  parte  dell'atto
amministrativo  si  trasforma  nella   violazione   di   un   vincolo
propriamente obbligatorio e diventa, dunque, fonte di  illegittimita'
amministrativa. E, aggiunge la  sentenza,  "nell'enunciato  normativo
(dell'art. 46 dello Statuto della Regione Campania)  nessun  elemento
testuale autorizza a ritenere che  la  norma  stessa  costituisca  un
programma promozionale da attuare successivamente ad opera di  organi
regionali". 
 
                               Diritto 
 
    La  Regione  Campania  -  sostenendo  la  natura   esclusivamente
politica dell'atto con cui il Presidente della Giunta  regionale,  in
forza dell'art. 122, comma 5, Cost., nomina gli assessori  -  Ritiene
che ogni pronuncia di un organo giurisdizionale che abbia ad  oggetto
la validita' o meno del suddetto atto menomi poteri  assegnati  dalla
Costituzione al Presidente della  Giunta  regionale  e  sia  pertanto
lesivo delle proprie attribuzioni. 
    Pertanto, contro la sentenza n. 4502 del 2011  del  Consiglio  di
Stato, con la quale il Supremo Giudice amministrativo  ha  confermato
la sentenza del Tar Napoli, che aveva annullato l'atto di  nomina  di
un assessore di sesso maschile, la ricorrente  propone  conflitto  di
attribuzioni,  affinche'  Codesta  Ecc.ma  Corte  dichiari  che   non
spetta(va) allo Stato - per il tramite di un organo giurisdizionale -
sindacare  la  legittimita'  di  un  atto  politico,  espressione  di
un'attribuzione costituzionalmente riconosciuta al livello di governo
regionale, e per l'effetto annulli la decisione  statale,  eliminando
dall'ordinamento le due decisioni della giustizia  amministrativa  di
primo e secondo grado, previa sospensione in via cautelare. 
    1. I conflitti aventi ad oggetto atti giurisdizionali. 
    Nessun dubbio puo' sorgere attorno l'ammissibilita' di un ricorso
avverso un  atto  giurisdizionale.  Infatti,  secondo  l'insegnamento
tradizionale  della  Corte  costituzionale,  "nulla  vieta   che   un
conflitto di attribuzione tragga origine da un atto  giurisdizionale,
se ed in quanto si deduca derivarne una  invasione  della  competenza
costituzionalmente garantita alla Regione. La figura dei conflitti di
attribuzione non si restringe  alla  sola  ipotesi  di  contestazione
circa l'appartenenza del medesimo potere, che ciascuno  dei  soggetti
contendenti rivendichi per se', ma  si  estende  a  comprendere  ogni
ipotesi  in  cui  dall'illegittimo  esercizio  di  un  potere  altrui
consegua   la   menomazione   di   una    sfera    di    attribuzioni
costituzionalmente assegnate all'altro soggetto" (Corte cost. n.  285
del 1990 e le ivi citate sentt. nn. 211 del 1972, 178 del  1973,  289
del 1974, 75 del 1977, 183 del 1981, 70 del 1985;  cfr.  anche  Corte
cost. n. 99 del 1991 e le ivi citate sentt. nn. 66 del 1964,  81  del
1975). 
    Ancor  piu'  chiaramente,  la  giurisprudenza  costituzionale  ha
espressamente dichiarato che "a partire  dalla  sentenza  n.  66  del
1964, la Corte ha piu' volte ritenuto che un conflitto instaurato  da
parte regionale  sia  suscettibile  di  trarre  origine  da  un  atto
giurisdizionale, la' dove ne possa conseguire  la  menomazione  della
competenza  o  dell'autonomia,  costituzionalmente  attribuite   alla
Regione (...): non gia' censurando l'illegittimita' del modo  in  cui
si  e'  concretamente  esplicata  la  giurisdizione   (...);   bensi'
deducendo che al Pretore stesso, come anche a qualsiasi altro giudice
penale, sarebbe sottratta  in  radice  -  alla  stregua  di  norme  o
principi di rango costituzionale, sia pure inespressi ma univocamente
desumibili dallo Statuto speciale siciliano -  la  facolta'  di  fare
provvisoria  applicazione  di  pene  accessorie,  nei  riguardi   dei
titolari dei' pubblico ufficio di  assessore  o  deputato  regionale"
(Corte cost. n. 183 del 1981 -preceduta dall'ordinanza n. 94 del 1980
di  sospensione  cautelare   della   sentenza   impugnata   -,   caso
particolarmente significativo, in quanto  relativo  alla  titolarita'
della facolta' di  sospendere  provvisoriamente,  dall'esercizio  del
loro ufficio, i componenti degli organi regionali). 
    Questi tipi di conflitti,  d'altronde,  sono  gli  unici  ammessi
dalla giurisprudenza costituzionale, giacche' tramite essi la Regione
contesta "radicalmente il  potere  giurisdizionale  che  si  pretende
esercitato" (Corte cost., sent. nn. 99 del 1991, 289 del 1974 e ordd.
nn.  244,  245  e  246  del   1988),   vale   a   dire   la   diretta
"riconducibilita' della decisione o di statuizioni in essa  contenute
alla funzione giurisdizionale" (Corte cost., ord. n.  338  del  2008,
sentt. nn. 2 e 290 del 2007).  Non  e'  dunque  in  contestazione  la
modalita' di esercizio della funzione giurisdizionale, cioe'  non  si
lamentano  errores  in  iudicando  -   circostanza   che   renderebbe
inammissibile il conflitto che si tradurrebbe in un  ulteriore  grado
di giudizio (Corte cost. sentt. nn. 357 del 1996, 27  del  1999,  29,
276 del 2003, 2, 39 e 150 del 2007) - ma si vuole ottenere, da  parte
della  Regione  che  promuove  il  conflitto,  la  rimozione  di   un
provvedimento che il giudice non poteva emanare  perche'  esorbitante
dalle proprie attribuzioni e, come  tale,  lesivo  delle  prerogative
regionali. 
    2. La natura dell'atto politico e la sua sottrazione al sindacato
giurisdizionale. 
    Nonostante le argomentazioni del supremo  consesso  di  giustizia
amministrativa, l'atto di  nomina,  da  parte  del  Presidente  della
Giunta regionale, degli assessori  appartiene  alla  categoria  degli
atti politici, e come tale, e' sottratto al sindacato  da  parte  del
potere giurisdizionale. 
    Come e' noto, la  configurabilita'  dell'atto  politico,  la  sua
natura e il suo rapporto con gli altri atti tipici  dell'ordinamento,
e'   stato   uno   dei   temi   piu'   dibattuti    nella    dottrina
costituzionalistica ed  amministrativistica,  soprattutto  da  quando
l'art. 24 della legge n. 5992 del 1889, poi trasfuso nel  T.U.  delle
leggi sul Consiglio di Stato e, ancora oggi, nell'art. 7  del  Codice
del processo amministrativo, ha affermato che il ricorso  innanzi  il
supremo Giudice amministrativo "non e' ammesso se trattasi di atti  o
provvedimenti  emanati  dal   Governo   nell'esercizio   del   potere
politico". 
    Si riconobbe da subito, pertanto, l'esistenza di una categoria di
atti, riconducibili ai pubblici poteri, e  in  un  certo  senso  "sui
generis".  D'altronde,  gia'  Sandulli,  richiamando  una   posizione
espressa anni prima da  Mortati,  ebbe  a  riconoscere  che  "tra  le
attivita'  degli  organi  costituzionali  dello  Stato,  alcune  -  e
precisamente quelle  attinenti  alla  suprema  direzione  della  cosa
pubblica (...) si rivelano, infatti, insuscettibili di essere assunte
in seno a quelle che  sogliono  essere  considerate  tradizionalmente
come le tre  funzioni  dello  Stato  -  legislazione,  giurisdizione,
amministrazione" (A.M. Sandulli, Atto politico ed eccesso di  potere,
in Giur. compl. Corte di Cass. sez. civ., 1946, 517-525, ora in  Id.,
Scritti giuridici, vol. III, Napoli 1990, 25  ss.,  e  il  richiamato
contributo di C. Mortati, L'ordinamento del Governo nel nuovo diritto
pubblico italiano, Roma, 1931). 
    Orbene, al contrario degli atti  legislativi  e  giurisdizionali,
che sono sostanzialmente tipizzati, gli  atti  dell'"amministrazione"
rimandano ad una categoria aperta e non strettamente definita. 
    Certo e' che gli atti espressione della  funzione  amministrativa
sono comunque quelli preordinati alla realizzazione  degli  obiettivi
concreti ad essi assegnati dalle leggi, o sulla base delle leggi. 
    Per gli organi  che  appartengono  al  potere  esecutivo,  questa
funzione amministrativa si affianca ad un'altra funzione,  quella  di
governo, che si esprime attraverso un'attivita'  di  natura  diversa,
politica appunto. L'attivita'  politica  di  governo  e'  quella  che
esprime e realizza il c.d. indirizzo politico, ovvero quell'attivita'
che la piu' autorevole dottrina ha inteso come  svolta  dagli  organi
costituzionali e consistente nella formulazione delle scelte  con  le
quali si individuano i fini  che  si  intende  perseguire  (Martines,
Cheli). 
    Si tratta  di  un'attivita'  che  -  preordinata  alla  direzione
suprema della cosa pubblica - si compone di  atti  "istituzionalmente
sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti  per
natura,  non  perche'  esiste  l'art.  31   T.U.:   sarebbe   infatti
logicamente  inconcepibile  che  la  funzione  sovrana   di   governo
trovasse, nella sua esplicazione, altri limiti oltre quelli derivanti
dalla Costituzione, ed assicurati  dalla  Corte  costituzionale"  (P.
Barile, Atto di governo (e atto politico), in Enc.  Dir.,  ad  vocem,
Milano 1959, neretto nostro). 
    Esiste,  dunque,  ed  e'  una  conquista  ormai  consolidata   in
dottrina, un ambito particolare, la sfera politica,  all'interno  del
quale gli organi legittimati, attraverso determinate  attivita',  non
sono  ancorati  al  perseguimento  di  fini  specifici   prestabiliti
dall'ordinamento giuridico una volta per sempre (come avviene per  le
attivita' amministrative),  bensi'  "al  perseguimento  di  qualsiasi
obiettivo di propria scelta (.) essendo percio' esenti, in  relazione
alle scelte effettuale e al criterio usato nell'effettuarle, da  ogni
controllo di legittimita'" (A.M. Sandulli, Governo e amministrazione,
in Riv. Trim. dir.  pubbl.,  1966,  737  ss.,  ora  in  Id.,  Scritti
giuridici, I, op. cit., 259 ss., 264-265). 
    Da qui, pertanto, e' di tutta evidenza come  un  siffatto  ambito
debba considerarsi "al di fuori della sfera d'azione del principio di
legalita', che la Costituzione pone come  canone  fondamentale  della
funzione  amministrativa  (...);  e  cosi'  pure  del  principio   di
imparzialita'" (A.M. Sandulli, ult. op. cit., 265). 
    Ecco, dunque, che l'atto politico puo' e deve essere inteso  come
quella manifestazione tipica della funzione politica e di governo. 
    Una funzione che per  la  causa  che  la  connota  e'  certamente
preminente rispetto alle altre  funzioni:  sarebbe  pero'  erroneo  e
(strumentalmente) fuorviante considerarla legibus soluta. 
    Si tratta, in verita', di una "insindacabilita'"  solo  relativa,
in quanto sono affidati al Presidente della Repubblica e  alla  Corte
costituzionale (cd. poteri neutri) dei precisi e penetranti ruoli  di
garanzia, volti ad assicurare la legalita' costituzionale delle leggi
e degli altri atti propriamente politici. 
    La differenza rispetto alle altre funzioni e' che  per  essa  non
puo' esservi altro sindacato che quello derivante direttamente  dalla
Costituzione, assunta a parametro della funzione di governo,  secondo
gli  schemi  e  i  meccanismi  di  controllo  da   essa   apprestati,
riconducibili al ruolo del Presidente della Repubblica e della  Corte
costituzionale. 
    Piu' recentemente, la  dottrina  ha  ribadito  l'esistenza  della
categoria degli atti politici (o di governo),  circoscrivendola  agli
"atti costituzionali in senso  tecnico:  nei  quali,  si  badi,  sono
compresi anche atti a carattere puntuale e senz'altro  produttivi  di
effetti in ordine a determinati soggetti, ma attinenti, appunto, alla
sfera costituzionale, circa i quali non si pone, ne' si e' mai  posto
un problema di sindacato giurisdizionale" (V. Cerulli treni, Politica
e  amministrazione:   tra   atti   "politici"   e   atti   "di   alta
amministrazione", in Riv. Dir. pubbl., 2009, 101 ss.). E  all'interno
di tale categoria tale piu' recente dottrina ha inserito gli atti  di
nomina dei membri della Giunta regionale (al pari  della  nomina  dei
ministri, dei sottosegretari etc.). Tutti atti in ogni caso sottratti
al sindacato del giudice amministrativo (cfr. G.  Ferrara,  Gli  atti
costituzionali, Torino 2000). 
    3. Circa l'esistenza dell'atto politico regionale 
    Invero, alla luce dell'ordinamento istituzionale della Repubblica
delineato dalla Costituzione e dal suo Titolo V non sembra  possibile
dubitare dell'esistenza di atti politici o di governo regionali.  Per
far cio', infatti, occorrerebbe porre in dubbio che le regioni  siano
dotate di un'autonomia politica garantita dalla  Costituzione  e  che
possano adottare un proprio indirizzo politico  anche  non  sintonico
con quello del Governo. Invero, il  carattere  propriamente  politico
dell'autonomia regionale si  puo'  ricavare  con  certezza  da  molte
previsioni  costituzionali.  Certamente   e'   possibile   quantomeno
riferirsi agli articoli: 122, comma 1 (la legge regionale  disciplina
il sistema di elezione del Presidente e degli altri componenti  della
Giunta  nonche'  dei  consiglieri  regionali),  121,  comma   4   (il
Presidente della Giunta dirige la  politica  della  Giunta  e  ne  e'
responsabile), 123 (ciascuna Regione ha uno statuto che ne  determina
la forma di governo),  117,  comma  1  (la  potesta'  legislativa  e'
esercitata dallo Stato e dalle Regioni), 117, comma  4  (spetta  alle
regioni la potesta' legislativa in riferimento ad  ogni  materia  non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato); 117, comma  9
(nelle materie di sua competenza la Regione puo'  concludere  accordi
con Stati e intese con enti territoriali  interni  ad  altro  Stato),
121, comma 2 (il Consiglio regionale puo' fare proposte di legge alle
Camere), 75 (il consiglio regionale  puo'  chiedere  l'indizione  del
referendum abrogativo di leggi e atti aventi valore  di  legge  dello
Stato), 127 (la Regione puo' promuovere la questione di  legittimita'
costituzionale della legge e dell'atto avente valore di  legge  dello
Stato),  134  (la  Corte  costituzionale  giudica  sui  conflitti  di
attribuzione tra lo Stato  e  le  Regioni,  e  tra  le  Regioni),  83
(all'elezione del Presidente della Repubblica partecipano i  delegati
regionali). 
    3.1.  Circa  la  natura  politica,  discrezionale  e   fiduciaria
dell'atto di nomina dei componenti della Giunta regionale. 
    3.1.1. A tutto concedere, anche in  base  alla  piu'  restrittiva
lettura che si possa dare degli atti politici o di governo, si devono
ritenere tali quantomeno gli atti costituzionali in senso tecnico. Si
tratta in buona sostanza,  per  quanto  in  particolare  riguarda  le
nomine, di quelle dei titolari dei principali organi  politici  della
Repubblica: la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri  da
parte del Presidente della Repubblica (art. 92 cost.); la nomina e la
revoca dei componenti della Giunta regionale da parte del  presidente
eletto a suffragio universale e diretto (art. 123 Cost.);  la  nomina
di  senatori  a  vita  e  di  giudici  costituzionali  da  parte  del
Presidente della Repubblica (art. 59 e art. 135 Cost.). Al  di  sotto
di questo non  e'  possibile  scendere  senza  eliminare  un'autonoma
categoria  di  atti  politici  o  di  governo  e  senza  determinare,
inevitabilmente, un'interferenza del potere  giudiziario  nell'ambito
dell'esercizio degli altri poteri. 
    Non e' vero pertanto, come impropriamente affermato dal Consiglio
di Stato, che gli atti politici si esprimono sempre ed esclusivamente
attraverso direttive a carattere generale e non  possano  mai  essere
atti  a  carattere  puntuale,  produttivi  di  effetti  per  soggetti
determinati. 
    Immotivata appare inoltre, nella sentenza del Consiglio di Stato,
l'affermazione secondo la quale non puo' riconoscersi natura di  atto
politico alla nomina degli assessori e del tutto contraddittoria  con
il pacifico riconoscimento di tale natura per la nomina dei ministri. 
    Se, e lo si e' appena visto, la  dottrina  non  ha  avuto  alcuna
difficolta' a riconoscere  la  politicita'  all'atto  di  nomina  dei
ministri,  non  v'e'  dubbio  alcuno   sul   fatto   che   tutte   le
caratteristiche  che  contraddistinguono  l'atto  politico,  con   le
relative  conseguenze,  si  ritrovano  oggi,  innanzitutto,   proprio
nell'atto di nomina degli assessori da  parte  del  Presidente  della
Giunta regionale. Esso ha natura di atto politico sia  dal  punto  di
vista soggettivo che oggettivo, secondo una categorizzazione  che  la
stessa  giurisprudenza  amministrativa  ha  utilizzato  proprio   per
individuare  le  caratteristiche  di   tali   atti:   "alla   nozione
legislativa  di  "atto  politico"  concorrono  due  requisiti,  l'uno
soggettivo e l'altro oggettivo: occorre, da un lato, che si tratti di
atto o provvedimento emanato "dal governo",  e  cioe'  dell'autorita'
amministrativa  cui  compete,  altresi',  la  funzione  di  indirizzo
politico e di direzione  al  massimo  livello  della  cosa  pubblica;
dall'altro,  che  si  tratti  di   atto   o   provvedimento   emanato
"nell'esercizio  di  potere  politico",  anziche'  nell'esercizio  di
attivita' meramente amministrativa" (Consiglio  di  Stato,  sent.  n.
6094 del 2009). 
    Per quanto concerne il criterio soggettivo, e' ben noto a Codesta
Ecc.ma Corte - che lo ha piu' volte sottolineato - come  lo  scenario
introdotto dalle Riforme attuate con le leggi cost. nn. 1 del 1999  e
3 del 2001, e sin qui recepito da  tutti  i  nuovi  statuti  tra  cui
quello  della  Regione  Campania,  sia  quello   di   una   struttura
istituzionale  regionale  fortemente  incentrata  sulla  figura   del
Presidente della Giunta regionale, che riceve l'investitura  popolare
diretta e, dunque, rappresenta la Regione, dirige la  politica  della
Giunta e ne e' responsabile (121, comma 3). 
    A tal fine egli detiene il potere di nominare e revocare i "suoi"
assessori che sono sottratti al rapporto fiduciario  diretto  con  il
Consiglio. 
    A cio' si aggiunge il principio del simul stabunt,  simul  cadent
per cui ogni circostanza che fa venir meno  il  Presidente  determina
l'automatico travolgimento della Giunta e del  Consiglio  (art.  126,
comma 3). 
    La particolare forma di governo cosi' delineata rende  quindi  da
subito chiaro l'intento del legislatore costituzionale, che e'  stato
appunto quello di costruire un legame che unisse il corpo  elettorale
al   potere   esecutivo,   oltre    che    naturalmente    all'organo
rappresentativo, garantendo altresi' un collegamento fra  gli  organi
regionali, tale da consentire l'instaurazione di un  rapporto  solido
tra maggioranza e Presidente-Giunta regionale. 
    Proprio  quel  legame  -  e  dunque  l'investitura  popolare  del
Presidente della Giunta - e' il  segno  evidente  della  volonta'  da
parte del processo di riforma di spostare il baricentro  dell'assetto
dei poteri regionali  a  favore  del  Presidente,  in  modo  tale  da
assicurare effettiva capacita' decisionale all'esecutivo  e  una  sua
maggiore stabilizzazione. 
    Cio'  trova   piena   conferma   in   tutta   la   giurisprudenza
costituzionale che, nel difficile percorso  di  attuazione  da  parte
delle  singole  Regioni,  ha  interpretato  la  riforma   del   1999,
contribuendo in molti casi a coglierne in pieno la sua portata. 
    Ebbene, in tali pronunce, la  centralita'  del  Presidente  della
Giunta regionale e' un dato certo, inequivocabile, non revocabile  in
discussione. 
    Si guardi in prima battuta alla  nota  sentenza  n.  2  del  2004
allorquando Codesta Ecc.ma Corte non ha indugiato a ritenere la forma
di governo espressa sinteticamente con le parole "Presidente eletto a
suffragio   universale    e    diretto"    siccome    "caratterizzata
dall'attribuzione ad esso di forti e tipici poteri  per  la  gestione
unitaria dell'indirizzo politico e amministrativo della  Regione".  E
non e' certo un caso che al primo posto di tali "tipici  poteri",  la
stessa Corte ha collocato proprio  quello  di  nomina  e  revoca  dei
componenti della Giunta. 
    Poco piu' avanti, nella medesima pronuncia si riconosce  come  la
scelta del legislatore costituzionale si sia mossa, oltre che per una
semplificazione del sistema politico a livello regionale,  verso  una
"unificazione dello schieramento maggioritario  intorno  alla  figura
del  Presidente  della  Giunta  (...)  al  cui  ruolo  personale   di
mantenimento dell'unita' di indirizzo politico  e  amministrativo  si
conferisce ampio credito, tanto da affidargli, come accennato, alcuni
decisivi poteri politici". 
    Lo stesso principio del  simul  stabunt  simul  cadent  e'  stato
riconosciuto dalla Corte, oltre che  profilo  caratterizzante  questo
assetto di governo, come "indice della maggiore  forza  politica  del
Presidente, conseguente alla sua elezione a  suffragio  universale  e
diretto" (Corte cost., sent. n. 372 del 2004). 
    E' dunque il Presidente della Giunta il primo titolare dei poteri
di indirizzo politico regionale: e tali  poteri  "si  esprimono,  tra
l'altro, anche nella predisposizione del fondamentale  "programma  di
governo" della regione" (Corte cost., sent. n. 379 del 2004). 
    Ulteriore  e  definitiva  consacrazione  della  centralita'   del
Presidente nella nuova organizzazione dei poteri al livello regionale
si legge qualche anno piu' tardi, quando Codesta Ecc.ma Corte  lo  ha
riconosciuto come "l'unico soggetto esponenziale del potere esecutivo
nell'ambito  della  Regione,  munito  di  poteri   che   lo   rendono
interamente responsabile, sul piano politico, dell'operato di tutti i
componenti della Giunta.  L'equilibrio  tra  poteri  configurato  nel
modello disegnato dalla Costituzione verrebbe alterato se si privasse
il  Presidente   della   possibilita'   di   scegliere   e   revocare
discrezionalmente gli assessori della propria Giunta, del cui operato
deve rispondere al Consiglio ed al corpo  elettorale"  (Corte  cost.,
sent. n. 12 del 2006). 
    La peculiare forza costituzionale del Presidente della Regione si
percepisce poi meglio se la si compara con quella del Presidente  del
Consiglio  dei  Ministri:  il  primo,  e  non  il   secondo,   riceve
l'investitura popolare; il venir meno del primo, e non  del  secondo,
determina il venir meno dell'organo esecutivo  e  contestualmente  lo
scioglimento dell'organo legislativo; il primo,  e  non  il  secondo,
dunque,  ha  il  potere  di  nominare   e   revocare   i   componenti
dell'Esecutivo, ovvero gli assessori, che ben possono essere definiti
"propri" del  Presidente:  infatti,  il  rapporto  tra  Presidente  e
assessori ruota attorno alla nomina e alla revoca presidenziale,  che
mette i componenti del Governo regionale "a disposizione" della linea
politica creatasi nel raccordo Presidente-corpo elettorale. 
    In altri termini, la previsione costituzionale  che  consente  al
Presidente  della  Regione   di   scegliere,   e   dunque   nominare,
direttamente i componenti della Giunta trova giustificazione  proprio
nella  funzione  di  determinazione  ed   attuazione   dell'indirizzo
politico regionale che il processo di riforma ha voluto attribuire al
Presidente stesso. 
    Il Presidente si candida con un programma di governo: se vince le
elezioni, si attiva un circuito con il corpo elettorale  fondato  sul
consenso attorno a quel programma,  che  deve  trovare  immediata  ed
efficace attuazione. La Giunta,  cosi',  diviene  organo  strumentale
all'attuazione del programma di governo; diventa organo che  e'  -  e
non puo' che essere - "nelle  mani"  del  Presidente.  Se  cosi'  non
fosse, il processo di attuazione del programma  grazie  al  quale  il
Presidente  e'  stato   eletto,   sarebbe   a   rischio,   risultando
pregiudicato l'equilibrio complessivo che  la  riforma  del  1999  ha
voluto assicurare al livello di governo  regionale,  anche  sotto  il
cruciale profilo della accountability del sistema. 
    Non e' corretta pertanto l'affermazione del  Consiglio  di  Stato
secondo la quale l'atto di nomina di un assessore e' posto in  essere
da  un'autorita'   amministrativa   nell'esercizio   di   un   potere
amministrativo e nemmeno quella  secondo  la  quale  l'atto  medesimo
debba qualificarsi attivita' di alta  amministrazione  immediatamente
esecutiva dell'indirizzo politico, "anello  di  congiunzione  tra  la
fase  della  programmazione  politica  e  l'attivita'   di   gestione
amministrativa". 
    A parte che  cosi'  ragionando  si  finisce  inevitabilmente  per
politicizzare  l'amministrazione  in  violazione  del  principio   di
separazione tra la politica e la  gestione  amministrativa  (art.  66
Statuto  Regione  Campania)  e  dei  principi  di  buon  andamento  e
imparzialita' della Pubblica amministrazione (art.  97  Cost.),  quel
che  appare  particolarmente  grave  e'  che,  nella  decisione   del
Consiglio di  Stato,  non  si  coglie  che  l'atto  di  nomina  degli
assessori e' atto costitutivo dell'organo  esecutivo  della  Regione,
non solo dunque atto sicuramente politico,  ma  anche  al  piu'  alto
contenuto di  politicita',  in  quanto  la  costituzione  dell'organo
precede e condiziona gran parte dell'attivita' di indirizzo  politico
ed e' fortemente connessa e strumentale al conseguimento dei fini cui
l'attivita' medesima e' volta: l'attuazione del programma di governo. 
    Ecco perche' proprio gli atti di nomina degli assessori,  per  il
ruolo che la Giunta e' chiamata a ricoprire in  stretto  collegamento
con il Presidente, sono naturalmente atti di natura politica, che non
sono suscettibili ex se di sindacato giurisdizionale e che come  tali
non abbisognano di alcuna particolare motivazione che vada  oltre  il
necessario intuitu personae. 
    3.1.2. Per quanto  concerne  il  criterio  oggettivo  andra'  pur
evidenziato  che  l'atto  di   nomina   degli   assessori   regionali
costituisce esercizio  di  un  potere  politico  da  intendersi  come
"ampiamente discrezionale" solo in  quanto  nessun  atto  di  governo
(statale o regionale che sia) in regime di costituzione rigida e' del
tutto libero nel fine. L'esistenza di norme di carattere promozionale
(art. 51 Cost.), programmatico (art. 117.9 Cost.) o di principio  (46
Statuto) che ne predeterminano i fini generalissimi e essenziali  non
degrada pertanto l'atto politico in  atto  di  alta  amministrazione,
come impropriamente affermato dal Consiglio di Stato, ne' tanto  meno
consente che a farsi interprete della promozione, dei programmi e  di
principi di carattere generale (peraltro formulati in modo generico e
indeterminato,  senza  che  se  ne  possa  determinare  un  contenuto
precettivo di  carattere  vincolato)  possa  essere  qualunque  altro
soggetto che non siano gli stessi organi  di  governo  della  Regione
Campania cui la previsione e' chiaramente diretta  (corpo  elettorale
regionale, Presidente della Giunta e Consiglio regionale). 
    Contrariamente  a  quanto  affermato  dal  Consiglio  di   Stato,
infatti, il canone della "equilibrata" presenza di  genere  non  puo'
essere ritenuta in grado di orientare l'attivita'  di  attuazione  in
senso strettamente vincolato. 
    Equilibrata  presenza   potrebbe   essere   intesa   come   quota
percentuale (ad es.  rispetto  alla  popolazione  o  agli  eletti  in
Consiglio), come minimo garantito (es. almeno una, almeno due,  etc.)
o piu' probabilmente, senza il ricorso a schematismi aritmetici, come
equilibrata  rispetto  alla  situazione  di  fatto  che  puo'  essere
valutata  esclusivamente  dal  Presidente  eletto   e   politicamente
responsabile verso  il  Consiglio  e,  soprattutto,  verso  il  corpo
elettorale. 
    Gravemente lesiva dell'autonomia politica della Regione appare la
contestata decisione del Consiglio di Stato in base alla quale, senza
alcuna motivazione in ordine alle modalita' di computo impiegate,  si
e' ritenuto che ... una donna e' poca e due sono sufficienti! 
    Una  simile  valutazione,  ampiamente   discrezionale,   potrebbe
risultare persino ragionevole, se non fosse assolutamente abnorme che
a compierla sia stata il Consiglio di Stato e non il Presidente della
Giunta regionale  cui  la  disposizione  statutaria  rimette  in  via
esclusiva ogni decisione al riguardo. 
    A piena dimostrazione della correttezza delle conclusioni sin qui
rassegnate,  sia  inoltre  consentito  evidenziare  che  proprio   la
giurisprudenza della Corte di cassazione, sempre attenta  a  limitare
al massimo il "deficit"  di  tutela  che  potrebbe  derivare  da  una
interpretazione piu' ampia della categoria degli atti  politici,  non
ha esitato  a  precisare  che,  proprio  con  riferimento  ad  organi
regionali (e veniva in tal caso in rilievo il ben piu' tenue -  sotto
il profilo dei poteri e della responsabilita' politica  -  ruolo  del
Consiglio  regionale),  "un  difetto  di  giurisdizione  del  Giudice
ordinario ed amministrativo puo' dunque sorgere solo nei confronti di
atti del Consiglio regionale che ...  siano  espressione  diretta  di
autonomia politica" (Corte di Cassazione, sez. un., 18  maggio  2006,
n. 11623). Se, dunque il carattere politico, e il conseguente difetto
di  giurisdizione  del  giudice  ordinario,  e'  stato  pacificamente
riconosciuto ad atti del consiglio regionale, non vi e'  ragione  per
non addivenire ad una conclusione coerente anche con riguardo  ad  un
atto, qual e' quello di nomina di un assessore, proprio  del  massimo
organo politico regionale. 
    4.   Circa   l'esistenza   di   sindacati   diversi   da   quello
giurisdizionale per gli atti politici posti in essere dal  Presidente
della Giunta regionale. 
    Asserendo   in   maniera   incontrovertibile   il   difetto    di
giurisdizione del giudice sull'atto  di  nomina  degli  assessori  da
parte del Presidente della Giunta regionale, la Regione  non  intende
certo - per tale via - sottrarre lo stesso atto a qualsiasi forma  di
sindacato, ma solo ribadire che quest'ultimo non e' (ne' puo' essere)
quello giurisdizionale. 
    Ed infatti, anche le  teorizzazioni  piu'  drastiche  sugli  atti
politici - lo si e' visto al punto 2 -  affermano  con  nettezza  che
questi, tuttavia, non possono considerarsi legibus soluti. 
    Rispetto  agli  atti  politici,  pertanto,  esistono   forme   di
controllo -esterne al potere giurisdizionale - che sono pienamente in
grado di sindacare la legittimita' degli stessi. 
    In primo luogo, va ribadito, che tutti gli atti  politici  devono
in ogni caso essere conformi alla Costituzione e ai principi generali
dell'ordinamento. 
    Del resto, se si prende in esame l'atto normativo per  eccellenza
a livello regionale, la legge,  nella  sua  altrettanto  indubitabile
natura politica - quale atto che implica scelte fortemente politiche,
finalizzate alla  realizzazione  degli  obiettivi  di  governo  della
comunita' regionale -ci si avvede subito di come essa  sia  sottratta
al sindacato da parte tanto del giudice  ordinario  che  del  giudice
amministrativo. L'unico organo legittimato a  giudicare  della  legge
regionale e' la Corte costituzionale, che e'  organo  giudicante  sui
generis, giacche' organo anche con  connotati  politici,  che  "opera
sullo stesso piano sul quale si svolge  l'attivita'  politica"  (A.M.
Sandulli, Sulla posizione  della  Corte  costituzionale  nel  sistema
degli organi supremi dello Stato, in Riv. Trim. dir. pubbl. 1960, 705
ss.). 
    Come chiarito dalla giurisprudenza di Codesta Ecc.ma  Corte,  ove
il giudice (nel caso di specie si trattava addirittura della Corte di
Cassazione)  giungesse  a   disapplicare   la   normativa   regionale
"trattandola alla stregua di un  atto  amministrativo"  eserciterebbe
"un potere del tutto abnorme, non  previsto  nel  nostro  ordinamento
costituzionale, con palese violazione degli artt. 101, secondo comma,
e 117, primo comma, della  Costituzione"  (Corte  cost.  n.  285  del
1990). Di talche', la  Corte,  in  occasione  della  sentenza  appena
richiamata, dichiaro' che non spetta allo  Stato,  e  per  esso  alla
Corte di cassazione, disapplicare le leggi regionali. 
    Se, dunque, gia' l'atto politico per eccellenza, quale  la  legge
regionale, e' sottratto al sindacato del giudice, anche l'atto su cui
si e' illegittimamente pronunciato  il  Consiglio  di  Stato  con  la
sentenza oggetto del presente conflitto, vale a dire la nomina  degli
assessori regionali, appartiene ad una ambito precluso alla  funzione
giurisdizionale, ma che e' suscettibile di altre e diverse  forme  di
controllo. 
    E'  opportuno  richiamare  nuovamente  e  rapidamente  il  quadro
costituzionale emergente dalle legge costituzionali n. 1 del  1999  e
n. 3 del 2001 che, come gia' visto, hanno inciso profondamente  sulla
forma di governo regionale,  ossia  sull'organizzazione  del  sistema
politico per il perseguimento dei fini  posti  dalla  Costituzione  e
sulla struttura delle relazioni tra gli organi di governo. 
    Alla luce del combinato disposto degli articoli 122, 123  e  126,
comma 3 Cost., si evince che: 
        a)  lo  Statuto  regionale  (espressione  piu'  significativa
dell'autonomia politica delle regioni) determina la forma di  governo
delle  regione  ed  i  principi  fondamentali  di  organizzazione   e
funzionamento, anche in deroga al modello previsto in Costituzione; 
        b) la legge regionale disciplina il sistema di elezione ed  i
casi di ineleggibilita' ed incompatibilita' del  presidente  e  degli
altri componenti della giunta regionale; 
        c) la discrezionalita' della regione nella definizione  della
forma  di  governo  incontra,  tuttavia,  una  limitazione:  qualora,
infatti, si opti per l'elezione diretta del presidente  della  giunta
da parte  del  corpo  elettorale,  l'approvazione  della  mozione  di
sfiducia nei confronti del presidente della giunta,  nonche'  il  suo
impedimento  permanente,  la  sua  rimozione,  morte   o   dimissioni
volontarie, comportano le dimissioni della giunta e  lo  scioglimento
del consiglio. 
    Le  regioni  hanno,  quindi,  un'autonomia  non  illimitata,   ma
certamente  spiccata,  nella  definizione  della  propria  forma   di
governo. 
    Orbene, a fronte di un sistema nel quale, come gia'  evidenziato,
il Presidente della Giunta  regionale  costituisce  l'unico  soggetto
esponenziale del potere esecutivo nell'ambito della  Regione,  munito
di  poteri  che  lo  rendono  interamente  responsabile,  sul   piano
politico, dell'operato di tutti i componenti della  Giunta,  esso  e'
certamente  sottoposto  a  forme  di  controllo  diverse  da   quello
giurisdizionale, ma di pari dignita' e compiutezza. 
    Innanzitutto, la prima forma di controllo e', appunto, di  natura
politica. 
    Come ha avuto modo di precisare Codesta Ecc.ma Corte, nella  gia'
richiamata sent. n. 12 del 2006, il Presidente della Giunta regionale
deve rispondere dell'operato della propria giunta al Consiglio ed  al
corpo elettorale (Corte cost., sent. n. 12 del 2006). 
    Questo significa che ove la Regione, con sua autonoma scelta, non
abbia abbandonato il modello delineato dall'art. 122, comma 5,  cost.
del Presidente eletto a suffragio universale e diretto,  sussiste  un
naturale  controllo  di  tipo  politico  esercitato   dal   Consiglio
regionale sull'operato del Presidente della Giunta. 
    Il  Consiglio  regionale,  infatti,  partecipa  alla  definizione
dell'indirizzo politico ed amministrativo  della  Regione  attraverso
gli   strumenti   propri   dell'attivita'    assembleare    (mozioni,
risoluzioni, ordini  del  giorno,  interpellanze,  interrogazioni)  e
dell'attivita'   di   vigilanza   svolta   dalle   commissioni.    Il
rafforzamento dell'esecutivo  regionale,  nella  struttura  delineata
dalla Costituzione, trova  quindi  un  robusto  contrappeso  nell'uso
stringente da parte del Consiglio regionale di strumenti di  verifica
periodica dello stato di attuazione del programma. 
    Come ricostruito da  Codesta  Ecc.ma  Corte,  l'art.  126,  terzo
comma, della Costituzione nonche' l'art.  5,  comma  2,  lettera  b),
della legge costituzionale n. 1 del 1999, (dettato  in  relazione  al
periodo transitorio, fino alla entrata in vigore dei  nuovi  statuti)
hanno un significato  evidente:  "con  esse  si  tende  a  garantire,
mediante il vincolo del simul stabunt, simul  cadent,  la  stabilita'
dell'esecutivo regionale" (Corte cost. n. 304 del 2002). 
    Quale estrema ratio, in  caso  di  dissidio  non  risolubile  tra
Consiglio   e   Presidente   della   Giunta,   si    puo'    giungere
all'approvazione di una mozione di sfiducia che, ai  sensi  dell'art.
126, ultimo comma, Cost., comporta le dimissioni della  Giunta  e  lo
scioglimento del Consiglio stesso. 
    In secondo luogo, vi e' una  ulteriore  forma  di  controllo,  di
natura democratica: il Presidente eletto  a  suffragio  universale  e
diretto - in qualita'  di  vertice  istituzionale  e  politico  della
Regione, nonche' di organo che ai sensi dell'art. 121, comma 4, Cost,
dirige la politica della Giunta e ne assume la responsabilita'  -  e'
infatti sottoposto alla ineludibile verifica della propria attivita',
nonche' di quella posta in essere dai  suoi  assessori  delegati,  da
parte dell'elettorato, che ben potra' sanzionare un deludente operato
dirigendo altrove i propri voti. 
    A  cio'  si  aggiunga,  inoltre,  l'ulteriore   limitazione,   di
carattere generale, di cui all'art. 2, comma 1, lett. f, della  legge
n. 165 del 2004, relativa al cd. divieto di terzo mandato consecutivo
del Presidente della Giunta regionale. 
    Vi e', infine, ma  certamente  non  meno  pervasiva,  tutt'altro,
un'ultima forma di controlla, di tipo istituzionale: la rimozione del
Presidente  della  Giunta  che  abbia  compiuto  atti  contrari  alla
Costituzione o gravi violazioni di legge, mediante  decreto  motivato
del Presidente della Repubblica, di cui all'art. 126, comma 1,  cost.
Ove  il  Presidente   della   Regione   dovesse   mettere   in   atto
comportamenti,  e  dunque  dovesse  approvare  atti,  contrari   alla
Costituzione, perche' incidenti su principi che connotano  il  nucleo
essenziale dell'ordinamento costituzionale o perche' in contrasto con
i  limiti  posti  dalla  Costituzione  all'autonomia  regionale,   il
meccanismo per rimuoverli e' previsto gia' a livello  costituzionale,
e certamente non e' il sindacato giurisdizionale. 
    Sara' dunque dovere del Presidente della  Repubblica,  una  volta
accertata  l'approvazione  di  atti  particolarmente  gravi,  perche'
contrari alla Costituzione, da parte del  Presidente  della  Regione,
provvedere a sanzionare quest'ultimo, attraverso il pesante strumento
della rimozione, secondo la procedura prevista dall'art. 126 Cost. 
    Se, per assurdo, sulla liberta'  di  scelta  degli  assessori  da
parte    del    Presidente    eletto    dovesse    essere    ritenuta
costituzionalmente  prevalente  la   necessita'   (costituzionale   e
costituzionalmente sancita) della  presenza  di  assessori  di  sesso
femminile, saremmo allora di fronte ad una grave violazione di  legge
ovvero ad atti contrari alla Costituzione, la cui  sanzione  consiste
nella rimozione del Presidente, secondo la  procedura  dell'art.  126
Cost. 
    Nessuno spazio  e'  lasciato,  in  siffatti  casi,  ad  attivita'
giurisdizionali. 
    Qualora, come nel caso qui in questione, il giudice si sia invece
pronunciato,   non   puo'   non   ravvisarsi   l'abuso   del   potere
giurisdizionale, che ha esercitato una funzione che non  gli  spetta,
invadendo la sfera di  attribuzioni  costituzionalmente  riconosciuta
alle Regioni. 
    Istanza di sospensione in via cautelare. 
    La Regione chiede la sospensione in via cautelare dell'esecuzione
della sentenza oggetto del presente conflitto. 
    Ai fini della sussistenza del  fumus, valga tutto quanto sin  qui
dedotto. 
    In relazione al periculum in mora va evidenziato che l'esecuzione
medio tempore della sentenza porterebbe alla revoca di  un  assessore
individuato espressamente attraverso un atto di nomina  -  di  natura
politica  -  del  Presidente  Caldoro   nell'esercizio   dei   poteri
conferitigli dalla vigente normativa regionale e alla  nomina  di  un
nuovo assessore  (tra  l'altro  non  necessariamente  donna),  previa
valutazione del profilo della ricorrente ai fini della nomina stessa. 
    Si tratterebbe di un'attivita' del tutto irrazionale e  illogica,
dal momento che nelle scelte operate originariamente  dal  Presidente
esiste gia' la valutazione di idoneita' dei soggetti  nominati  e  di
inidoneita' dei non scelti. Si verrebbe cosi' a creare un  gravissimo
vulnus alla continuita' dell'azione  amministrativa  e  istituzionale
della  Regione  Campania,  esponendola  inoltre  a  rischi  gravi,  e
pressoche' certi, di ulteriori interruzioni dell'azione di Governo. 
    Concreta  ed  immediata  sarebbe  la  paralisi  delle   attivita'
regionali  che  conseguirebbe   alla   sospensione   dalle   funzioni
dell'Assessore Amendolara, titolare  di  una  delega  che,  anche  in
considerazione  dei  fondi  europei  da   utilizzare,   richiede   lo
svolgimento  di   attivita'   politico-amministrative   di   primario
interesse, che diversamente resterebbero paralizzate, in attesa della
individuazione di un soggetto altrettanto idoneo. 
    Al fine di  scongiurare  contraccolpi  gravi  o  vere  e  proprie
interruzioni nell'esercizio delle funzioni di governo della Regione -
inevitabili  ove  si  dovesse  medio  tempore  dare  esecuzione  alla
decisione  revocando  la  Giunta  o  anche  sostituendo  uno  o  piu'
assessori - si chiede, ai sensi dell'art. 40 della legge  n.  87  del
1953, a Codesta Ecc.ma Corte di voler concedere,  con  ordinanza,  la
misura cautelare provvisoria della sospensione  dell'efficacia  della
sentenza oggetto del presente conflitto.